Le contraddizioni del codice penale

Le contraddizioni del codice penale
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“Ex facto oritur ius”. Dal fatto nasce il diritto.

La defatigante opera di ricerca della descrizione del fatto, quale divenire irripetibile prigioniero di un hic e di un nunc, si riflette nelle mutevoli fattispecie di legge.

Il fatto ha l’opaca impenetrabilita’ della materia (Irti) ed è legato, in diritto, ad uno schema.

Organizzare la disciplina di una materia è opera altamente complicata e meritoria.

L’elaborazione di un codice, quale raccolta di disposizioni di legge, richiede coerenza e rigore.

Il codice penale ha tentato tale ricostruzione.

Si sono, così, succedute miriadi di disposizioni normative che hanno portato, inevitabilmente, ad una serie di contrasti e contraddizioni.

L’opera del legislatore, abile demiurgo chiamato a smussare gli angoli di questa spigolosa congerie di norme, non sempre è stata foriera di chiarificazioni.

L’organicita’ e la regolarità del sistema penale risulta, spesso, minata dalla

inesorabilita’ del trascorrere del tempo.

I concetti giuridici moderni sono, infatti, oltre che frutto della secolarizzazione della teologia morale, anche della manifestazione dei costumi e degli interessi che attraversano la concreta realtà.

Le scelte di politica criminale hanno spesso, radicalmente, modificato l’apparato sanzionatorio o, ancor più inopinatamente , l’elaborazione degli istituti creando aporie e contraddizioni.

“Basta un tratto di penna del legislatore per mandare al macero intere biblioteche”,recita la legge di Kirshchmann.

E quando non le manda al macero ne rivoluziona la ragion d’essere.

Il tutto corroborato da inaspettati “revirement’, che hanno creato, ancor più confusione e incertezza.

Senza voler setacciare il pingue palcoscenico morfologico del “diritto vivente” (cui pure è stato attribuito maggior risalto a seguito della “comunitarizzazione” della Cedu) risulta interessante analizzare il “diritto positivo”(il codice penale, i suoi principi immanenti e le leggi collegate, per intenderci).

IL REATO CONTINUATO E L’AGGRAVANTE TELEOLOGICA.

Art 81,comma 2 c. p. :

Soggiace ad una pena attenuata” chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge”.

Art.61 n. 2 c. p. : è circostanza aggravante ”l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato“

“Quando plura delicta tendunt ad eundem fine, pro uno tanto puniantur”. Si legge, in modo un po’ enfatico, negli antichi scritti romani.

Il nobile e noto istituto del reato continuato, trae l’abbrivio dal “favor” dell’ordinamento verso chi commetta più reati, espressione del medesimo

disegno criminoso, in luogo di chi ne commetta lo stesso numero e qualità, senza un apparente legame.

La ratio, dicono i sostenitori di tale norma (rectius: noema, idea giuridica) , sta nel fatto che chi ha agito una sola volta, seppur violando più disposizioni di legge, è meno pericoloso di chi ha agito più volte, superando, in ogni singolo reato, la controspinta inibitoria alla commissione di un delitto.

L’ art 61 n. 2 c.p.,però, prevede, al tempo stesso, che costituisce circostanza aggravante (e qui nasce la contraddizione) :”l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro”.

L’elemento soggettivo della aggravante teleologica tende a sovrapporsi a quello destinato a caratterizzare l’istituto della continuazione, costituito dall’unicita’ del disegno criminoso. La subdola convergenza degli istituti implica la contraddittoria conseguenza di determinare, per uno stesso fatto, un trattamento sanzionatorio attenuato in considerazione della minore pericolosità dell’agente(reato continuato) e un trattamento sanzionatorio aggravato in considerazione della più marcata manifestazione di recrudescenza di chi, al fine di occultare un reato, ponga in essere un’ulteriore azione illecita(aggravante teleologica ).

Troppo cervellotico. Facciamo un esempio.

Tizio, indigente, ha intenzione di rapinare una banca. Ruba un’auto di notevole cilindrata così da avere un mezzo veloce per guadagnarsi,a seguito della rapina, l’impunità. Commette la rapina e scappa con l’auto rubata.

Abbiamo due reati.

Furto dell’auto e rapina in banca.

Tizio aveva, probabilmente , programmato tutto.

Rubare l’auto, fare la rapina, scappare con l’auto precedentemente rubata. Aveva un medesimo disegno criminoso nella commissione dei 2 reati: si applica, dunque, l’ istituto più favorevole al reo, del reato continuato.

Tizio avrà, per ciò solo, una pena inferiore a quella che avrebbe avuto se avesse perpetrato i 2 reati senza alcun legame psicologico.

Lo dice il Codice.

Il problema è che il Codice dice anche che, se dopo la commissione di un primo reato, ne venga commesso un altro al fine di assicurarsi l’impunità del primo, siamo di fronte ad una circostanza aggravante.

Tizio avrà dunque una pena superiore a quella che avrebbe avuto se avesse commesso i 2 reati, senza alcun legame psicologico.

Delle due l’una.

Rubare un’ auto per poi darsi alla fuga, con questa, dalla rapina di lì a poco commessa, è descrizione di una condotta più biasimevole, (in quanto aggravante teleologica) o è espressione di un medesimo disegno criminoso (e quindi meno grave) in quanto violativo, una sola volta, della controspinta inibitoria a delinquere ?

”NEMO TENETUR SE DETEGERE” E REATO DI FALSE

C OMUNICAZIONI SOCIALI

I principi attraversano le norme e non hanno fattispecie ed effetti. A un fatto di reato posso applicare una norma, non un principio.

Ma per una coerenza di sistema, la norma deve ricalcare l’affermazione valoriale sottesa al principio.

Non può discostarsene.

Il principio secondo cui “nessuno è obbligato ad accusare sé stesso( ad autodenunciarsi) ”cozza con una serie di disposizioni normative che puniscono chi dichiara il falso per sfuggire ad una accusa.

L’art 2621 cc., ex multis, dispone che gli amministratori, i dirigenti, i sindaci.. che “consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta

dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni”.

In epoca recente, il Massimo Organo di Nomofilachia, ha ritenuto che ove la falsità delle scritture sia finalizzata esclusivamente a occultare illeciti commessi precedentemente, come la corruzione o il contrabbando( ed i conseguenti profitti) , non è possibile attribuire ai responsabili l’occultamento del provento dei reati, non potendosi esigere un comportamento che si risolverebbe nell “autodenuncia” degli stessi illeciti e dei relativi profitti.

I detrattori di tale tesi affermano che il principio del “nemo tenetur se detegere” (autoaccusarsi) atterrebbe al piano processuale e non a quello sostanziale.

Ad ogni modo è , in conclusione, più forte il principio, che permea l’intera materia penale, o la norma, che ha applicazione diretta al fatto e che dovrebbe essere concreta espressione di quel principio?

Con maggior impegno esplicativo, sono tenuto a comunicare il vero o, quando questo mi porterebbe ad una accusa, ne sono esonerato?

Il principio scrimina. La norma punisce.

Resta il dubbio.

GLI STATI EMOTIVI E PASSIONALI. RILEVANTI O IRRILEVANTI?

L’Art 90 c. p. dispone che:“Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”

Tale articolo non riconosce rilevanza alcuna, ai fini della formulazione del giudizio di imputabilita’, agli stati emotivi e passionali.

Il “vulnus” alla coerenza del codice che, in alcune situazioni, riconosce a tali stati dell’animo rilievo attenuante o, addirittura, scusante della colpevolezza, è lampante.

Ne è un esempio la provocazione, riconosciuta come circostanza attenuante ai sensi dell’art 62 n. 2c. p. ,o come causa di non punibilità all’art 599 co. 2 c. p.. “Lex videt iratum, iratus non videt legem”.

O, ancora, si pensi alla suggestione della folla in tumulto, circostanza attenuante comune ai sensi dell’art 62,n.3 del codice penale.

Emotività legata indissolubilmente alla condotta.

Gli stati dell’animo hanno un peso o non hanno alcuna rilevanza?

REATO IMPOSSIBILE E PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO.

Art 49 co.2 c. p. Reato impossibile. La norma prevede tale disposizione :

“… La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

… Nel caso indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza”.

L art 131bis c. p.” Particolare tenuita’ del fatto”, invece, recita:

”la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.

L’istituto del reato impossibile,”cogitationis poenam nemo patitur”,è stato oggetto di attenzione della dottrina e della Giurisprudenza da tempo immemore. Esso presuppone che manchi del tutto l’offesa al bene protetto; viceversa, l’istituto della non punibilità ex 131bis c. p. prevede che il Giudice, apprezzata

la sussistenza di una fattispecie tipica, antigiuridica e offensiva, concluda tuttavia per la estrema tenuita’ dell’ offesa arrecata al bene giuridico.

Le antitetiche previsioni codicistiche destano qualche perplessità. Soprattutto se si analizzano gli effetti delle due disposizioni.

Si ammette l’applicazione di una stigmatizzante misura di sicurezza in caso di condotte totalmente inoffensive e, al contrario, la non punibilità assoluta in caso di comportamenti di particolare tenuità.

Il profilo di irrazionalità emerge meglio con un esempio.

Tizio, imprenditore, riporta sui registri contabili interni fatture false o inesistenti.

Se non procede alla dichiarazione in un atto pubblico, tale condotta è inidonea a integrare una fattispecie di reato.

Siamo nel campo del reato impossibile : gli verrà applicata una misura di sicurezza.

Se, invece, l’imprenditore dichiara tali falsità in un atto pubblico soggiace alla pena prevista, esclusa però per particolare tenuità.

Si arriva dunque al paradosso che conviene perpetrare un reato, che abbia i requisiti della particolare tenuità e che resterà, per ciò solo, impunito, piuttosto che rimanere allo stadio del tentativo inidoneo(reato impossibile) e soggiacere alla pena della applicazione di una misura di sicurezza.

Ipotesi aberrante.

ABORTO PRETERINTENZIONALE E ABORTO DOLOSO.

Nella complessa questione, etica prima ancora che giuridica, che connota il tema dell’ aborto si inserisce l’atavico problema della collocazione del delitto preterintenzionale.

Fiumi di inchiostro non hanno chiarito se l’elemento soggettivo del reato vedesse, accanto alle figure classiche di dolo e colpa, anche quella della

preterintenzione (volendo, in questa trattazione, escludere la responsabilità oggettiva a seguito delle storiche sentenze 364/88 e 1085/88 della Corte Costituzionale).

L’incongruenza nasce dal fatto che la preterintenzione, sebbene tipizzata, sia stata a più riprese ricondotta nell’ alveo del dolo, della colpa(ipotesi più datate), per poi concentrarsi sul solo “evento più grave di quello voluto” e farlo ricadere nella responsabilità oggettiva o nella colpa,entrambi miste a dolo.

Ora, in un quadro già così complesso e confusionario, si staglia l’unica ipotesi (assieme all’omicidio preterintenzionale) di delitto “oltre l’intenzione” che è quello dell’aborto.

Ma v’è di più.

Ed ecco la contraddizione.

Nella frenetica corsa all’individuazione del bene tutelato dalla fattispecie extracodicistica del delitto di aborto ci si è scontrati con 2 interessi di pari rango e, talvolta, eteroescludenti : la vita del concepito e la libertà di autodeterminazione della donna.

E si arriva al paradosso che il bene tutelato dalla fattispecie di aborto preterintenzionale non è lo stesso tutelato dalla corrispondente fattispecie dolosa dell’aborto non consensuale.

Può una medesima fattispecie di reato tutelare beni giuridici differenti, in base all’ elemento soggettivo che, di volta in volta, viene riscontrato?

Il legislatore ha abilmente evitato di sciogliere il nodo gordiano, omettendo di classificare gli interessi in gioco.

E il bene della vita del nascituro rimane, colpevolmente, in secondo piano…

IRRILEVANZA DEL PUTATIVO ED ERRORE SULLA PERSONA.

Nel Co. 3 dell’art 59 cp si legge che :”Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui”.

L’ Art 60 Co. 2 c. p. dispone:” Sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti”.

Il codice immediatamente dopo aver sancito l’irrilevanza delle circostanze attenuanti e delle aggravanti putative( apparenti, presuntive) ne attribuisce valore giuridico.

Non sarebbe stato più opportuno derogare, nella stessa norma, al principio generale, anziché prevedere due fattispecie antitetiche e generare, così, contrasti?

LO STRANO CASO DELL’ ART 62 N. 1 C.P.

L’ art 62,n.1,c.p. prevede una diminuzione della pena se il soggetto ha agito “per motivi di particolare valore morale o sociale”.

La Giurisprudenza accoglie una interpretazione restrittiva della norma in esame e, autorevole dottrina, l’ha definita, icasticamente, in termini di “errore concettuale” (Marinucci-Dolcini) o “aporia logica”(Fiandaca – Musco).

Il fatto di reato è ontologicamente “immorale”. Smussare gli angoli di un fatto illecito per giustificarlo della sua presunta moralità, è una pericolosa operazione di puro arbitrio.

Si pensi al caso di scuola di due genitori che, per motivi religiosi, tralasciano di far praticare alla figlia talassemica una trasfusione di sangue, così non impedendone la morte.

Un caso, si dirà nelle aule giudiziarie, di attenuazione della pena per l’aver agito per un motivo di “particolare valore morale o sociale”.

In base a quale criterio sarà valutata l’ apprezzabilita’ del movente?

Si conferisce rilievo a valori che ricevono l’incondizionata approvazione della società e si nega, invece, qualsiasi valenza attenuante a valori che siano specchio di minoranze culturali o religiose?

Il rischio di un “diritto penale d’autore” è dietro l’angolo.

In conclusione,una breve disamina su questo coacervo di casi, ossia fatti a cui si applica uno schema e una idea giuridica.

La contraddizione, non è di per sé, solo negativa.

Ma genera idee.

L’intuizione scioglie le contraddizioni. Ma il diritto non è intuizione. È l’arte della dimostrazione.

Dimostrazione tramite parole.

Gli operatori del diritto sono custodi delle parole. Sacerdoti.

Non ci si può affidare a una intuizione, pena la disomogeneità di giudizio. Bisogna riconquistare il diritto (lo ius), quale scrigno di certezza.

Il diritto è un vincolo. La certezza del diritto ed il suo rigore si raggiungono eliminando le contraddizioni.

Tra il retorico e l’analitico, Ortega y gasset, diceva :”a forza di parlare di iustitia si sta perdendo di vista lo ius” e se ne sta perdendo la sua inesorabilita’.

Avv. Mauro Casillo